mercoledì 20 gennaio 2016

L’accertamento giudiziario dello stato d’insolvenza delle banche

Rivista di diritto bancario

Fallimento
Novembre 2012

L’accertamento giudiziario dello stato d’insolvenza delle banche alla luce della riforma della legge fallimentare

Emma Sabatelli, Professore Associato di Diritto Fallimentare nell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”
Estremi per la citazione:
E. Sabatelli, L’accertamento giudiziario dello stato d’insolvenza delle banche alla luce della riforma della legge fallimentare, in Riv. dir. banc., dirittobancario.it, 27, 2012 
ISSN: 2279–9737
Rivista di Diritto Bancario
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Con alcune modifiche il testo riproduce il commento all’art. 182 Tub destinato alla pubblicazione nel Commentario al Testo Unico bancario, a cura del prof. C. Costa.
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Sommario: 1. Il coordinamento fra il Testo Unico bancario e la riformata legge fallimentare. – 2. I presupposti soggettivi dell’accertamento giudiziale dell’insolvenza. – 3. L’insolvenza delle banche. – 4. I soggetti legittimati a richiedere l’accertamento giudiziale dell’insolvenza. – 5. Segue. L’iniziativa del pubblico ministero e i poteri officiosi del Tribunale. – 6. Il procedimento. – 7. Il rinvio all’art. 203 l. fall.
 

1. Il coordinamento fra il Testo Unico bancario e la riformata legge fallimentare
L’art. 82 enuncia le regole per l’accertamento giudiziale dello stato di insolvenza delle banche, tanto nel caso in cui esso preceda, quanto nel caso in cui segua il provvedimento di liquidazione coatta amministrativa; inoltre, mediante il rinvio all’art. 203 l. fall., contenuto nell’ultimo comma, precisa che all’accertamento giudiziale consegue anche la possibilità di ricostruire il patrimonio attivo della banca insolvente attraverso l’esercizio delle azioni revocatorie fallimentari. La formulazione della norma è rimasta quella originariamente dettata nel Testo Unico bancario e, dal momento che parimenti invariate sono restate le contraddittorie disposizioni di raccordo fra normativa speciale e legge fallimentare in materia di liquidazione coatta amministrativa, rispettivamente contenute nell’art. 80, 6° comma, Tub, e nell’art. 194 l. fall., devono tuttora reputarsi sussistenti gli interrogativi concernenti il problematico coordinamento fra la disciplina dell’accertamento giudiziale dell’insolvenza contenuta nella legge fallimentare e quella dettata dalla norma in commento.
La prima fra le disposizioni richiamate, dopo aver enunciato il criterio della prevalenza delle regole contenute nel Testo Unico sulla normativa di carattere generale, chiarisce che le disposizioni della legge fallimentare si applicano – previa valutazione di compatibilità – soltanto “per quanto non espressamente previsto” dal Testo Unico bancario; l’art. 194 l. fall, invece, pur riconoscendo anche esso nel primo comma che, in via di principio, le leggi speciali prevalgono sulla disciplina della liquidazione coatta amministrativa dettata dalla legge fallimentare, nel secondo comma, con un ribaltamento di prospettiva, elenca alcune norme della legge fallimentare prevalenti sulle corrispondenti disposizioni delle leggi speciali, le quali sono, pertanto, dichiarate abrogate nella misura in cui risultano incompatibili con le prime. Fra tali disposizioni vi sono appunto gli artt. 195 (Accertamento giudiziario dello stato d’insolvenza anteriore alla liquidazione coatta amministrativa) e 202 l. fall. (Accertamento giudiziario dello stato d’insolvenza), che regolano le stesse fattispecie contemplate dall’art. 82, 1° e 2° comma, Tub.
Il problema del coordinamento fra il diritto fallimentare ed la disciplina speciale delle crisi delle imprese bancarie è, dunque, questione non nuova, che in passato ha visto la dottrina dividersi fra gli assertori della priorità della legge speciale – anche di quella contenuta nella previgente legge bancaria, ma il principio è stato affermato con maggior rigore con riguardo alle regole successivamente introdotte dal Testo Unico – in ragione “della maggiore completezza esibita dalla disciplina bancaria della liquidazione coatta rispetto alla ben più sommaria articolazione che dell’istituto offre la legge del ’42” e coloro per i quali, invece,il contrasto fra le normative sarebbe stato risolto mediante la recezione nella legge speciale dei principi contenuti nella abrogata legge fallimentare1.
Attualmente, però, la questione deve essere riconsiderata alla luce della riforma del diritto fallimentare, che ha conferito ad esso la qualità di jus superveniens rispetto alla disciplina delle crisi dell’impresa bancaria contenuta nel Testo Unico bancario; tale circostanza impone che – vuoi in ragione delle contrastanti indicazioni contenute nell’art. 80, 6° comma, Tub e nell’art. 194, ultimo comma, l. fall., vuoi per il principio della prevalenza della legge successiva su quella precedentemente emanata – nell’esaminare l’art. 82 si debba innanzitutto appurare quale sia la disciplina applicabile al caso concreto, qualora vi siano discrepanze fra la regolamentazione dell’accertamento giudiziale dello stato di insolvenza contenuta nel testo Unico bancario e quella dettata nella novellata legge fallimentare, e che si debba, inoltre,verificare se e in quale misura possono tuttora essere considerati validi i rinvii che l’art. 82 contiene alla legge fallimentare relativamente a parti che, direttamente o indirettamente (come è avvenuto per le disposizioni richiamate dall’art. 203 l. fall.), sono state oggetto di modifica da parte del legislatore della riforma.
Come si vede, si tratta di interrogativi ai quali non è semplice dare risposta. Secondo una recente e condivisibile opinione, ferma restando la prevalenza della legge speciale ogniqualvolta essa disciplini in maniera autonoma fasi del procedimento, che pure trovano corrispondenza in analoghe fasi rette dalla normativa generale, per quel che concerne i rinvii alle norme della legge fallimentare, si deve senz’altro intendere che siano riferiti alla disciplina vigente, poiché in tal modo viene salvaguardata la funzione, che ab origine il legislatore ha attribuito ad essi, di regolare in maniera omogenea elementi o fasi del procedimento presenti in procedure diverse2. Tuttavia, l’applicazione delle disposizioni fallimentari, ancorché richiamate dal Tub, non può avvenire automaticamente, qualora siano state modificate dalla riforma della legge fallimentare, dovendo anch’esse logicamente soggiacere in questo caso ad una verifica di compatibilità con la disciplina speciale delle crisi delle imprese bancarie. Queste riflessioni verranno, dunque, condotte sulla falsariga della prospettiva interpretativa appena enunciata.
2. Presupposti soggettivi dell’accertamento giudiziale dell’insolvenza
A differenza di quanto attualmente prevede l’art. 1, 2° comma, l. fall.,tanto nella disciplina generale della liquidazione coatta amministrativa, quanto in quella contenuta nel Tub, al fine della dichiarazione giudiziale di insolvenza non è richiesto il superamento di alcun limite dimensionale da parte dell’impresa in crisi e tale circostanza ha sollevato dubbi di incostituzionalità per la disparità di trattamento alla quale sarebbero sottoposte le imprese assoggettate al fallimento rispetto a quelle per le quali è prevista la liquidazione coatta amministrativa3. Per le imprese bancarie, però,questa perplessità non sembra poter essere condivisa. A parte l’ovvia constatazione che, nei fatti, risulterà abbastanza difficile che le banche non superino almeno una delle soglie di fallibilità previste dalla legge fallimentare4, non si può non considerare che la disciplina dettata nel Tub è direttamente funzionale alla tutela ed alla realizzazione degli interessi della collettività direttamente coinvolti nel settore del risparmio e del credito; pertanto, gli specifici requisiti dimensionali e organizzativi, previsti dalla normativa primaria e secondaria per l’accesso all’attività, le modalità prescritte per l’esercizio dell’impresa ed il controllo su di essa, nonché, ovviamente, le regole di gestione delle crisi costituiscono la risposta dell’ordinamento ad istanze di ordine pubblico, sempre presenti, quando vi sia esercizio dell’impresa bancaria, quali che siano le dimensioni che essa in concreto abbia assunto.
A ciò si aggiunga che, se davvero si ritenesse inammissibile nei confronti delle “piccole” banche la pronuncia giudiziale dell’insolvenza, si determinerebbe una particolare situazione, francamente poco comprensibile sul piano della coerenza logica e giuridica, in base alla quale certamente l’Autorità governativa potrebbe disporre la liquidazione coatta in caso di insolvenza, essendo tenuta a provvedere già quando siano solo previste perdite di eccezionale gravità5. Ma, per effetto di questa singolare “amputazione” del procedimento, i soggetti legittimati ai sensi del primo comma dell’art. 82 Tub – e in primo luogo fra questi, i creditori, che non sono parimenti legittimati a proporre la procedura di liquidazione coatta – verrebbero privati dell’unico strumento, che può essere da essi esperito per ottenerne l’apertura anche in caso di inerzia dell’Autorità competente; per opinione pressoché unanime, infatti, una volta che sia stata accertata giudizialmente l’insolvenza, l’autorità amministrativa competente è tenuta a dare corso al procedimento di liquidazione. Inoltre, durante la procedura liquidatoria sarebbe possibile rimpinguare l’attivo attraverso l’esercizio delle azioni revocatorie, che è anche esso un effetto inscindibilmente connesso all’accertamento giudiziale dell’insolvenza; ed è evidente che in una situazione in cui presumibilmente non si potrà pervenire all’integrale soddisfacimento dei crediti pregressi, il mancato esercizio delle revocatorie causerebbe una ingiustificabile violazione del principio della par condicio, dal momento che, nonostante il pesante ridimensionamento di cui sono state oggetto a seguito della riforma del diritto fallimentare, esse rimangono tuttora il principale mezzo per la ripartizione dell’insolvenza sul ceto creditorio.
Parimenti invariati, ma eccedenti dall’ambito di queste riflessioni, permangono gli interrogativi relativi alla individuazione delle “banche” che possono essere sottoposte alla liquidazione coatta6; nell’ambito di queste, poi, è altresì necessario stabilire anche quali possano essere assoggettate all’accertamento giudiziale dell’insolvenza. Tradizionalmente, il problema è stato posto soprattutto nei confronti delle banche pubbliche, per le quali è opinione prevalente – avallata, fra l’altro dal rinvio contenuto nell’art. 82, 1° comma, all’art. 195, 8° comma, l. fall., il quale esclude che l’accertamento giudiziario dell’insolvenza possa essere pronunciato al di fuori del procedimento di liquidazione coatta nei confronti degli enti pubblici – che la sentenza dichiarativa dell’insolvenza possa intervenire solo dopo che ne sia stata disposta la liquidazione coatta. Non soltanto rispetto alle banche pubbliche, ma più in generale con riguardo a tutti gli enti pubblici economici, in genere si ritiene che il legislatore avrebbe intenzionalmente scelto di non sottoporre ad alcun vincolo la discrezionalità della Pubblica Amministrazione nel disporre lo scioglimento dell’ente7; tale discrezionalità, infatti, verrebbe meno una volta che l’insolvenza sia stata accertata giudizialmente, dal momento che in tal caso lo scioglimento dell’ente da parte dell’Autorità competente – come si è appena rammentato – è generalmente considerato un atto dovuto8. Ovviamente, in questa prospettiva nulla osta, invece, a che l’accertamento dell’insolvenza intervenga successivamente all’emanazione del decreto di liquidazione, poiché l’Autorità amministrativa ha potuto esercitare il piena libertà i suoi poteri di valutazione9. Non si può, peraltro, omettere di segnalare che la questione presenta attualmente scarsissima rilevanza pratica, dal momento che nel nostro sistema sopravvive un’unica banca pubblica: l’Istituto per il credito sportivo, il quale, peraltro,è stato posto in amministrazione straordinaria con d.m. 28 dicembre 201110.
Continua egualmente a porsi in termini invariati la vexata quaestio concernente l’individuazione della procedura alla quale deve essere sottoposta la cosiddetta “banca di fatto” in caso di insolvenza. Come è noto, se nel vigore dell’abrogata legge bancaria prevaleva nella dottrina e nella giurisprudenza l’opinione secondo la quale l’esercizio dell’attività bancaria, anche in difetto di autorizzazione, implicava in caso di insolvenza l’assoggettamento dell’impresa alla disciplina delle crisi bancarie11, attualmente, mentre la questione continua ad essere oggetto di vivaci contrasti dottrinali12, presso la giurisprudenza di merito sembra si stia progressivamente affermando una lettura “formalistica” dell’art. 1, 2°comma, lett. a), Tub, in base alla quale la disciplina speciale si applicherebbe elusivamente alle imprese bancarie autorizzate; di conseguenza il problema dell’accertamento giudiziale dell’insolvenza ex art. 82 Tub non si porrebbe proprio rispetto alle banche di fatto, poiché queste, in caso di insolvenza, non potrebbero che essere assoggettate al fallimento13.
Infine, per quel che concerne le succursali di banche estere, che svolgono l’attività nel territorio nazionale, ne può essere dichiarata l’insolvenza soltanto nel caso in cui esse possano essere sottoposte a liquidazione coatta secondo le regole del nostro ordinamento: infatti, la dichiarazione di insolvenza è una fase – peraltro soltanto eventuale – del procedimento di liquidazione coatta e l’emanazione di una sentenza che la accerti ha un senso solo se vi è la possibilità giuridica che si innesti nel suddetto procedimento. È necessario, dunque, distinguere a seconda che si tratti di succursali di banche extracomunitarie ovvero di banche comunitarie14. Per le prime l’assoggettamento al procedimento di liquidazione coatta secondo le regole del nostro ordinamento è espressamente sancito dall’art. 95 Tub, ai sensi del quale le banche extracomunitarie soggiacciono alla disciplina della liquidazione coatta amministrativa15. Le banche comunitarie, invece, sono sottoposte esclusivamente alla disciplina dell’insolvenza prevista dal Paese di origine16; infatti, l’art. 95–quater, 2° comma – che è fra le norme introdotte nel Tub dal d. lg. 9 luglio 2004, n. 197, in adeguamento alla Direttiva 2001/24/CE in materia di risanamento e liquidazione degli enti creditizi17 – riconosce alla Banca d’Italia soltanto il potere di rivolgere una richiesta all’Autorità di vigilanza dello Stato d’origine, segnalando la necessità di attivare una procedura di risanamento nei confronti della banca comunitaria operante nel territorio nazionale, nel pieno rispetto del principio dell’home country control, recepito dalla Direttiva comunitaria, che attribuisce alle autorità dello Stato d’origine piena competenza nella gestione della crisi18.
3. L’insolvenza delle banche
Anche con riguardo alle caratteristiche dell’oggetto dell’accertamento giudiziale (lo stato di insolvenza) non si devono segnalare novità conseguenti alla riforma del diritto fallimentare. Come in precedenza, resta aperto il dibattito relativo alla nozione di insolvenza delle banche, che vede parte della dottrina sostenere che il concetto di insolvenza di cui all’art. 5. l. fall. ha carattere “universale”, nel senso che è ad esso che si deve fare riferimento per tutte le procedure di crisi – e, dunque, anche in quelle bancarie – nelle quali è richiamato19, e altra parte, fortemente sostenuta dalla giurisprudenza, che, pur quando evoca in via di principio la sovrapponibilità fra le nozioni di insolvenza bancaria e fallimentare, perviene, però, ad affermare, enfatizzandole peculiarità dell’attività bancaria, che l’insolvenza della banca può essere dichiarata in un momento cronologicamente anteriore, rispetto a quello ricavabile mediante l’applicazione della nozione generale, in quanto deve essere già considerata sussistente in presenza di particolari indicatori tecnici, fra i quali particolare rilievo viene attribuito alla risultanza di un ingente e prognosticamente irreversibile deficit patrimoniale20. Vi è, poi, una tesi “intermedia”, che distingue fra l’insolvenza della banca non ancora sottoposta a liquidazione coatta, che dovrebbe essere individuata secondo i principi della legge fallimentare, e l’insolvenza della banca accertata nel corso del procedimento di liquidazione, che coinciderebbe “con l’accertamento della insufficienza dell’attivo rispetto all’entità del passivo, cioè con una situazione di deficit patrimoniale dell’impresa”21.
4. I soggetti legittimati a richiedere l’accertamento giudiziale dell’insolvenza
Se la banca non è stata ancora sottoposta a liquidazione coatta sono legittimati a richiedere la dichiarazione giudiziale di insolvenza i creditori, il pubblico ministero, nonché i commissari straordinari, qualora sia in corso una procedura di amministrazione straordinaria; inoltre, lo stato d’insolvenza può essere dichiarato d’ufficio dal Tribunale. Dopo l’emanazione del provvedimento di liquidazione, invece, alla dichiarazione giudiziale di insolvenza si può pervenire per iniziativa dei commissari liquidatori22, del pubblico ministero ovvero del Tribunale competente in via officiosa23.
Tanto nel primo, quanto nel secondo comma della norma, la gamma dei soggetti legittimati è, dunque, differente rispetto alla disciplina generale contenuta nella legge fallimentare. Per quel che concerne il primo comma, l’elencazione in esso contenuta diverge non solo rispetto a quanto stabiliva l’abrogato art. 195, 1° comma, l. fall., che si limitava a menzionare soltanto i creditori24, ma non coincide nemmeno con la formulazione vigente della norma,che affianca ai creditori la stessa impresa e l’Autorità che svolge la vigilanza su di essa25; parimenti, l’art. 82, 2° comma, Tub, contempla la dichiarazione giudiziale officiosa, che non è, invece, prevista nell’art. 202, 1° comma, l. fall., il quale non è stato modificato dalla riforma.
Se, dunque, si eccettua il mancato riconoscimento della legittimazione in capo al debitore, il primo comma della disposizione in esame fedelmente ricalca l’abrogato art. 6. l. fall. nella individuazione dei soggetti legittimati a provocare il fallimento26. In passato, in virtù di tale coincidenza, era pacificamente ammesso che gli interrogativi, che si ponevano relativamente all’iniziativa per la dichiarazione giudiziale dello stato di insolvenza, dovessero essere affrontati e risolti, adottando le regole dettate in materia di fallimento come normativa unitaria di riferimento27. E, in effetti, la legittimità di tale operazione interpretativa appariva inoppugnabile, dal momento che, in assenza di una disciplina specifica, la sia pure parziale sovrapponibilità con i soggetti ai quali era consentito di assumere l’iniziativa per la dichiarazione di fallimento non lasciava margini di dubbio circa la compatibilità delle disposizioni della legge fallimentare, le quali risultavano, pertanto, anche applicabili all’accertamento giudiziario dell’insolvenza, ai sensi dell’art. 80, ultimo comma, Tub.
Attualmente, invece, la riforma del diritto fallimentare, che ha segnato la scomparsa del fallimento d’ufficio e l’introduzione di una disciplina innovativa dell’iniziativa del pubblico ministero, rende assai più dubbia la legittimità di una analoga operazione e, come è agevole intuire, solleva questioni di non facile soluzione. Tali questioni, ovviamente, non concernono né la situazione dei creditori, né quella dei commissari straordinari (e dei commissari liquidatori, di cui all’art. 82, 2° comma,Tub), che è rimasta sostanzialmente invariata. Rispetto ai primi, una volta che si sia rammentato che, attraverso il perdurante riconoscimento del potere di iniziativa si consente ai creditori – che non sono inclusi fra i soggetti che possono sollecitare l’emissione del provvedimento di liquidazione ex art. 80 Tub – di provocare indirettamente l’apertura della procedura, per gli aspetti che vengono qui presi in considerazione la posizione dei creditori della banca appare tuttora assimilabile a quella dei creditori del fallito, sicché è lecito rinviare alle conclusioni formulate dalla dottrina ed dalla giurisprudenza rispetto a questi ultimi28. Lo stesso può dirsi per i commissari straordinari e i commissari liquidatori: i primi, dunque, qualora nel corso dell’amministrazione straordinaria riscontrino la situazione di insolvenza della banca possono tanto formulare l’istanza di apertura della procedura di liquidazione forzata, di cui all’art. 80, 2° comma, Tub29, quanto adire il Tribunale per ottenere che l’insolvenza venga giudizialmente dichiarata, per un verso, “forzando” l’Autorità governativa a disporre la liquidazione della banca e, per altro verso, anticipando ad un momento anteriore all’apertura del procedimento di liquidazione lo spiegarsi degli effetti di cui all’art. 203 l. fall., entro i limiti che verranno di seguito illustrati30. Invece, essendo la procedura già in corso, il ricorso dei commissari liquidatori appare esclusivamente finalizzato a consentire, a seguito dell’accertamento giudiziale dell’insolvenza, l’esercizio delle azioni revocatorie, ai sensi della disposizione da ultimo citata.
5. Segue. L’iniziativa del pubblico ministero e i poteri officiosi del Tribunale
A fronte delle profonde innovazioni apportate dalla riforma della legge fallimentare, ben più ardui sono gli interrogativi che si pongono con riguardo all’individuazione dei presupposti per l’iniziativa del pubblico ministero e per la dichiarazione di insolvenza motu proprio da parte del Tribunale. Come è stato osservato, eliminata la possibilità che si pervenga alla dichiarazione di fallimento ex officio, l’art. 7 l. fall. delinea ora “due macroaree funzionali in cui può trovare fondamento l’iniziativa del pubblico ministero”31, corrispondenti rispettivamente alle ipotesi di emersione dell’insolvenza nel corso di un procedimento penale ovvero nel corso di un procedimento civile. Se la prima di tali macroaree, sia pure con qualche fatica, può essere ricondotta alla previgente disciplina o quantomeno all’interpretazione che ne dava quella parte della dottrina secondo la quale l’iniziativa del pubblico ministero poteva essere esercitata esclusivamente nell’ambito di un procedimento penale32, del tutto nuova è l’area di legittimazione contemplata dall’art. 7, n. 2, palesemente introdotta in sostituzione della soppressa iniziativa officiosa del Tribunale33, ai sensi della quale è ora consentito al pubblico ministero di richiedere la dichiarazione di fallimento34, nel caso in cui la segnalazione dell’insolvenza gli sia pervenuta da un altro giudice, il quale l’abbia rilevata nel corso di un procedimento civile35.
È mancata, però, l’opera di raccordo con le normative di settore, sicché, tanto la disposizione in commento, quanto l’art. 3 d. lg n. 270/1999, relativamente all’amministrazione straordinaria delle grandi imprese, prevedono tuttora che la dichiarazione giudiziale di insolvenza possa essere pronunziata d’ufficio dal Tribunale. È certamente possibile, come è stato sostenuto, che la sopravvivenza di tale potere officioso debba essere considerata “un’evidente incoerenza normativa”, probabilmente imputabile alla “non sopraffina conoscenza della realtà legislativa di contorno”36; tuttavia, quantomeno per le crisi bancarie, la tutela degli interessi della collettività conserva tuttora una rilevanza tale da indurre a ritenere non ingiustificata la permanenza della possibilità che si pervenga alla dichiarazione giudiziale di insolvenza vuoi ex officio, vuoi per iniziativa del pubblico ministero. Non v’è dubbio, però, che il mancato coordinamento dell’art. 82 Tub con la novellata disciplina fallimentare imponga all’interprete il difficile compito di delineare le aree di operatività – intuitivamente interdipendenti – della legittimazione officiosa del Tribunale e dell’azione del pubblico ministero.
Fra i percorsi interpretativi astrattamente proponibili a tal fine non appare praticabile quello che volesse configurare una sorta di sopravvivenza postuma degli abrogati artt. 7 e 8 l. fall., dal momento che né il Tub, né la disciplina generale della liquidazione coatta amministrativa contengono alcun diretto rinvio a tali disposizioni, la cui applicabilità alle normative di settore, come si è già rammentato, era giustificata esclusivamente da esigenze di uniformità di regolamentazione del fenomeno della liquidazione concorsuale,esplicitata in materia di crisi bancarie dall’operatività – in assenza di una normativa specifica – del principio della “compatibilità”, enunciato nell’art. 80, ultimo comma, Tub37. In applicazione di questo stesso principio, ancora in vigore, non sembra nemmeno che si possa accedere alla tesi che perviene ad una interpretazione sostanzialmente abrogatoria della dichiarazione officiosa dello stato di insolvenza38; anche se non si può non apprezzare lo sforzo di ricondurre ad unità il sistema, tale opinione,che si fonda sui dati normativi costituiti dalla soppressione dell’art. 8 l. fall. e dall’attuale contenuto dell’art. 7 l. fall., finisce per non dare alcun peso alla circostanza che alla formulazione della disposizione in commento non sia stata apportata alcuna variazione a seguito della riforma del diritto fallimentare.
Qualora, invece, si aderisca alla opinione pienamente rispettosa della lettera della norma, che reputa del tutto ammissibile che tuttora si pervenga d’ufficio alla dichiarazione giudiziale dello stato di insolvenza39, si deve ammettere che il venir meno del dato normativo costituito dall’abrogato art. 8 l. fall.40 apre un percorso, per così dire, obbligato per individuare i confini dell’attività officiosa del Tribunale, dal momento che, in assenza di una disciplina specifica – non diversamente, come si vedrà, da quanto deve ritenersi che ora avvenga per l’iniziativa del pubblico ministero – essi non possono che essere delineati facendo riferimento a principi di carattere generale.
Nel nostro sistema di diritto privato, incentrato sul cosiddetto “principio della domanda”, enunciato dall’art. 2907 c.c.41, rispetto al quale ogni deroga riveste carattere di tassatività ed eccezionalità, nei casi in cui la legge consenta tout court l’iniziativa officiosa del Tribunale, il punto critico è costituito – come è da tempo diffusamente riconosciuto – dalla necessità di marcare nettamente la separazione fra il giudice–attore e il giudice–organo della giurisdizione allo scopo di evitare ogni possibile commistione di ruoli, che, ledendo il principio della terzietà e della imparzialità dell’organo giudicante, si esporrebbe alla eccezione di incostituzionalità. È altresì noto che tale questione è stata oggetto di una pronuncia della Corte Costituzionale42, la quale, quasi in margine della riforma della legge fallimentare, ha affermato la legittimità del fallimento d’ufficio nel rispetto, però, di talune condizioni, nella medesima sentenza esplicitate, che, a ben vedere, risultano del tutto indipendenti dalla disciplina allora vigente del fallimento e possono, pertanto, essere tuttora utilizzate in via generale per individuare i caratteri dei poteri officiosi del Tribunale.
L’assunto intorno al quale ruota la sentenza è costituito dalla asserzione della legittimità della iniziativa officiosa, qualora sia prevista dal legislatore, a condizione che sia salvaguardato il principio di terzietà del giudice, come soggetto super partes equidistante dagli interessi coinvolti; a tal fine è necessario che la conoscenza dello stato di insolvenza derivi ad esso ab externo, sì da evitare la coincidenza nell’organo giudicante del duplice ruolo di giudice ed attore, e che non si tratti di una conoscenza comunque acquisita43, ma che provenga da una “fonte qualificata”44. Di tali fonti qualificate la sentenza offre una casistica, alla quale correttamente la dottrina ha riconosciuto carattere esemplificativo della esternità della sollecitazione45, di tal che, in un ambito prettamente concorsuale, deve ritenersi che sia tale la segnalazione proveniente da qualunque giudice che nell’ambito di un procedimento pendente abbia acquisito notizia dell’insolvenza, ivi compreso il giudice incompetente presso il quale il procedimento sia stato erroneamente incardinato. Quantomeno dubbio è, invece, se – in una situazione che si pone, per cosi dire “a cavallo” fra iniziativa officiosa e iniziativa del pubblico ministero – possa ritenersi consentito al Tribunale adito, nel caso in cui sia venuto meno l’impulso di parte (per desistenza ovvero perché ne sia sta accertata la carenza di legittimazione)46, di segnalare esso stesso la situazione di insolvenza al pubblico ministero, sollecitandone, nei fatti, l’azione ovvero se una condotta di tal genere debba essere reputata inammissibile, perché in lesiva del principio di terzietà ed imparzialità del giudice47.
Per quel che concerne, invece, il pubblico ministero, se si condividono le osservazioni fin qui formulate, si deve prendere atto della impossibilità di fare riferimento al vigente art. 7 l. fall. per definirne i poteri di iniziativa: i mutati equilibri del sistema, conseguenti all’eliminazione del fallimento di ufficio ed al corrispondente potenziamento della legittimazione del pubblico ministero, rendono la disposizione vigente palesemente incompatibile con la disciplina della iniziativa per la dichiarazione giudiziale di insolvenza dettata nel Tub, non fosse altro che per la inevitabile sovrapposizione e confusione fra i poteri officiosi del Tribunale e quelli del pubblico ministero, che all’applicazione di tale disposizione conseguirebbero. Anche la definizione del ruolo del pubblico ministero deve, pertanto, essere “ripensata”, facendo ricorso a principi di carattere generale ed è naturale che in primo luogo venga in considerazione la funzione da esso svolta nella persecuzione dei reati fallimentari nell’ambito della liquidazione coatta delle banche48. In particolare, ai sensi dell’art. 238 l. fall., l’esercizio dell’azione penale relativa alle diverse figure del reato di bancarotta richiede che l’insolvenza sia stata giudizialmente dichiarata o, quantomeno, che in presenza di gravi motivi già esista o sia contestualmente presentata domanda per ottenere la dichiarazione giudiziale.
La disposizione appena richiamata evidentemente implica una “ricaduta” del principio della obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero, in presenza di una notizia criminis, comunque pervenutagli, su tutti gli atti necessariamente propedeutici e strumentali alla proposizione di tale azione49; di conseguenza, si deve ritenere che, ove ricorrano le circostanze appena menzionate, anche in assenza di una espressa prescrizione normativa il pubblico ministero abbia il dovere di attivarsi per ottenere la dichiarazione giudiziale di insolvenza in funzione della persecuzione dei reati fallimentari50.
Più complesso è, evidentemente, stabilire se, al di là di queste ipotesi, sussista una generale legittimazione del pubblico ministero, che abbia avuto notizia del dissesto di una banca, a proporre l’istanza per la dichiarazione giudiziale di insolvenza51. Non soccorre a tal fine il principio della tassatività delle fattispecie di esercizio dell’azione civile sancito dall’art. 69 c.p.c. e dall’art. 2907 c.c.52, dal momento che ciò che è in discussione non è la legittimazione del pubblico ministero, espressamente riconosciuta dal primo e dal secondo comma dell’art. 82 Tub, bensì se tale legittimazione si estenda al di là dell’azione penale e delle attività strumentali ad essa. Si deve, tuttavia, riconoscere che il vuoto normativo non consente di scegliere con sicurezza fra la tesi che risponde negativamente a tale interrogativo, adducendo che non vi è traccia del nostro ordinamento del riconoscimento in capo al pubblico ministero di un potere inquisitorio e di vigilanza sulla salute delle imprese53, e quella che, invece, muovendo dalla constatazione che il pubblico ministero è titolare di un munus publicum, reputa che non possa astenersi dall’agire in ogni caso in cui abbia avuto comunque notizia del verificarsi della fattispecie sostanziale che dell’azione costituisce il presupposto54. In questa sede ci si limiterà a convenire con coloro che sottolineano il “carattere squisitamente politico” di ogni deroga al principio della domanda55, che porterebbe a reputare assolutamente urgente un intervento normativo che introduca una precisa regolamentazione dei poteri di iniziativa del pubblico ministero ed eventualmente riformuli l’intera disciplina della iniziativa per la dichiarazione dello stato di insolvenza, tenendo conto delle innovazioni introdotte dalla riforma del fallimento56.
6. Il procedimento
Il Tribunale competente a pronunciare la dichiarazione giudiziale di insolvenza è quello del luogo dove la banca ha la sede legale, a differenza di quanto è previsto dalla legge fallimentare, che – vuoi con riguardo alla dichiarazione giudiziale di insolvenza nell’ambito della disciplina generale della liquidazione coatta (artt. 195, 1° comma, e 202, 1° comma, l. fall.), vuoi per la dichiarazione di fallimento (art. 9 l. fall.) – fa costantemente riferimento alla sede principale dell’impresa, generalmente intesa come il luogo dal quale vengono impartite le direttive e vengono organizzati e coordinati i fattori della produzione57. Benché le ragioni della scelta non siano affatto chiare, al fine della individuazione della sede legale, che solo presuntivamente coincide con la sede principale della banca, si deve, pertanto, far riferimento alle risultanze dell’iscrizione nel registro delle imprese ex art. 2196, 1° comma, c.c.58. Per quel che concerne le succursali di banche extracomunitarie, che potrebbero essere più d’una, in mancanza di una regola espressa si è sostenuto che la competenza per la dichiarazione di insolvenza spetti al Tribunale del luogo dove è allocata la sede di primo impianto59 ovvero, secondo altri, la sede principale60.
Benché per ovvi motivi di ordine cronologico l’art. 82 Tub non ne faccia cenno, è altresì ragionevole ritenere che, al fine della individuazione del Tribunale competente sia irrilevante il trasferimento della sede legale della banca, che sia intervenuto nell’anno antecedente all’apertura del procedimento. Non soltanto la regola è ora contenuta nell’art. 195, 1° comma., ultima parte, l. fall., che può ben essere invocato per integrare la disciplina del procedimento in forza del rinvio di cui all’art. 80, ultimo comma, Tub, ma soprattutto essa esprime un principio di carattere sostanziale – evitare la pratica del cosiddetto forum shopping – che era già stato recepito dalla giurisprudenza della Suprema Corte61.
Le uniche prescrizioni concernenti lo svolgimento della procedura direttamente ricavabili dall’art. 82 Tub hanno ad oggetto l’indicazione dei soggetti che devono necessariamente essere sentiti prima che il Tribunale adotti qualsivoglia provvedimento in ordine alla sussistenza dello stato di insolvenza. In ogni caso, tanto se la banca sia sottoposta a liquidazione coatta amministrativa, quanto se la procedura non sia stata ancora avviata, devono essere ascoltati i legali rappresentanti della banca stessa, anche se cessati62, e la Banca d’Italia63; ad essi si aggiungono i commissari straordinari, se è stata aperta una procedura di amministrazione straordinaria (i quali, secondo parte della dottrina, dovrebbero essere sentiti, anche se cessati dall’incarico, qualora a seguito dell’amministrazione straordinaria sia intervenuta la liquidazione coatta64), nonché i commissari liquidatori, se il procedimento di liquidazione sia già in corso.
Per il resto, il procedimento è governato attraverso molteplici rinvii all’art. 195 l. fall., che pongono l’interprete di fronte all’alternativa se intendere il richiamo riferito alla disciplina vigente nel momento in cui il Tub è stato emanato, ignorando l’intervenuta riforma del diritto fallimentare, ovvero a quella attualmente in vigore, tenendo anche presente che, nel caso in cui si scegliesse questa seconda strada, le regole applicabili dovrebbero essere individuate non più sulla base di un dato formale (la numerazione dei commi menzionati dell’art. 195), bensì attraverso un’indagine di carattere sostanziale, che consideri l’attuale collocazione delle suddette regole nel novellato art. 195 l. fall65. A favore dell’interpretazione conservativa potrebbe addursi il rispetto della volontà del legislatore, che, quando ha emanato il Tub aveva presente un determinato sistema normativo di riferimento – quello dell’abrogata legge fallimentare – al quale non ha nei fatti derogato; in senso contrario, si è, però, condivisibilmente obiettato che per questa via si perverrebbe ad una netta ed ingiustificabile frattura fra la disciplina generale della liquidazione coatta, contenuta nella legge fallimentare, e quella speciale dettata nel Testo Unico, laddove, invece, soprattutto con riguardo alla dichiarazione giudiziale di insolvenza e agli effetti di questa, il legislatore si è costantemente mosso nell’intento di delineare nella legge fallimentare una struttura normativa “di base”, per un verso, idonea ad integrare in maniera omogenea le eventuali lacune delle leggi di settore e, per altro verso, essa stessa integrabile dalle disposizioni dettate in materia di fallimento, naturalmente in quanto compatibili, sì da assicurare coerenza ed organicità di fondo all’intero sistema delle procedure concorsuali66.
Sulla base di queste premesse si può, dunque, osservare che il procedimento, che conduce alla sentenza dichiarativa dell’insolvenza delle banche67, è sostanzialmente identico, tanto se si svolga anteriormente, quanto se sia posteriore al provvedimento che dà inizio alla liquidazione coatta, con l’ovvia eccezione costituita dalla circostanza per cui soltanto nel caso in cui l’accertamento giudiziale sia anteriore al decreto di apertura del procedimento di liquidazione al Tribunale è consentito di adottare, con la sentenza o con un successivo decreto, provvedimenti cautelari a tutela dei creditori68.
Benché ora occupi il quarto comma dell’art. 195, non è stato nemmeno modificato – tanto nelle modalità, attraverso il richiamo all’art. 136 c.p.c., quanto per il termine di tre giorni – l’obbligo di comunicazione della sentenza all’autorità competente69, affinché disponga la liquidazione dell’ente, che, ove non sia stata ancora decretata, costituisce uno degli effetti necessitati della dichiarazione giudiziale di insolvenza. La norma trova però applicazione, in forza del richiamo contenuto nell’art. 82, 2° comma, Tub, anche quando la dichiarazione giudiziale di insolvenza interviene successivamente alla emanazione del decreto di apertura della procedura di liquidazione e, in tal caso, produce gli effetti di cui all’art. 203 l. fall.
Parimenti invariata è rimasta la seconda parte del quarto comma dell’art. 195 l. fall., ai sensi del quale si applicano alla dichiarazione dello stato di insolvenza le disposizioni concernenti la notifica e la pubblicità della sentenza di fallimento. In questo caso, però, alla immutata formulazione della norma – che, per un’evidente svista, menziona ancora l’affissione – corrisponde una normativa di rinvio profondamente modificata dalla riforma70.
Il regime del gravame che si applica alla sentenza dichiarativa dell’insolvenza delle banche deve essere ricostruito mediante un doppio rinvio: dall’art. 82, 1° e 2° comma, Tub, ai commi quarto e quinto della abrogata versione dell’art. 195 l. fall., ora “traslati” nel comma quinto, totalmente innovato, della disposizione vigente, il quale, a sua volta rinvia agli artt. 18 e 19 l. fall., che disciplinano l’impugnazione della sentenza dichiarativa di fallimento ed un potenziale effetto – la sospensione della liquidazione dell’attivo – ad essa conseguente. Pertanto, il rimedio avverso la sentenza di accertamento dello stato di insolvenza è ora costituito dal reclamo alla Corte d’appello71, proposto nei modi e nei tempi di cui all’art. 18 l. fall., la cui applicabilità nell’ambito della disciplina dell’accertamento giudiziale dell’insolvenza non sembra porre particolari problemi, salvo che per le disposizioni contenute negli ultimi due commi della norma. Non v’è dubbio, infatti, che il quindicesimo comma dell’art. 18, ai sensi del quale sono fatti salvi gli effetti degli atti legalmente compiuti dagli organi della procedura, in caso di revoca del fallimento, non possa trovare applicazione qualora la revoca della dichiarazione giudiziale di insolvenza intervenga prima dell’emanazione del decreto di liquidazione: in tal caso non vi sono ancora né organi della procedura, né atti imputabili ad essa, poiché gli effetti ablativi tipici delle procedure concorsuali liquidative non si producono dalla sentenza, bensì dal provvedimento emesso dall’autorità governativa competente72. Parimenti, se la revoca della sentenza dichiarativa dell’insolvenza viene pronunciata nel corso del procedimento di liquidazione, l’efficacia conservativa dovrebbe intendersi riferita agli atti che nella sentenza medesima trovano il loro presupposto; tale conclusione è, però, evidentemente inaccettabile dal momento che le conseguenze della dichiarazione di insolvenza consistono nella esperibilità delle azioni revocatorie e nell’applicabilità delle norme relative ai reati fallimentari ed è pacifico che dal venir meno dell’accertamento giudiziale derivi a carico della procedura il dovere di provvedere a rimuovere gli effetti già prodottisi a causa dell’esercizio delle revocatorie e dell’azione penale73.
Allo stesso modo non sembra che possa trovare applicazione non soltanto con riferimento alla dichiarazione giudiziale di insolvenza, ma proprio rispetto alla procedura di liquidazione coatta l’art. 18, ultimo comma, l. fall., che disciplina le modalità di liquidazione delle spese della procedura e del compenso al curatore, attribuendone la competenza al Tribunale. Anche in questo caso giova ripetere che, se la revoca della sentenza dichiarativa dell’insolvenza è anteriore al decreto di apertura della liquidazione, non vi possono essere spese della procedura, né da compensi da liquidare; se è posteriore, non è idonea a causare la cessazione della procedura, la quale prosegue finché non intervenga una determinazione del Ministro dell’economia, che, essendo l’autorità competente a decretare l’inizio della liquidazione coatta, presumibilmente è anche competente a revocare il provvedimento nel caso in cui sia accertata l’insussistenza del presupposto in base al quale questo è stato emanato. Non v’è dubbio che la mancanza di una disciplina specifica degli effetti della revoca del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa ponga molteplici problemi, che in questa sede non possono nemmeno sommariamente essere tratteggiati e che fra essi debbano anche essere annoverati quelli relativi all’individuazione delle modalità di liquidazione delle spese sostenute per la procedura, ma, quantomeno per quel che concerne questi ultimi, si può con una certa sicurezza affermare che, a fronte della palese inapplicabilità del richiamato ultimo comma dell’art. 18 l. fall., essi devono trovare soluzioni coerenti con la struttura e la disciplina della liquidazione coatta amministrativa, piuttosto che del fallimento74.
Del tutto incomprensibile e frutto di un’evidente errore del legislatore è, poi, il rinvio all’art. 19 l. fall., ai sensi del quale, in presenza di gravi motivi, la Corte d’appello su richiesta di parte o del curatore può sospendere parzialmente o anche temporaneamente la liquidazione dell’attivo: anche nel caso in cui la revoca della sentenza dichiarativa dell’insolvenza sia pronunciata nel corso della liquidazione, è del tutto evidente che non ne può influenzare lo svolgimento, dal momento che la decisione circa la sospensione delle attività di liquidazione e, eventualmente, la revoca del procedimento sono assolutamente estranee alle competenze dell’autorità giudiziaria75.
Invariato nella formulazione letterale e nella collocazione è rimasto, infine, il comma sesto dell’art. 195 l. fall., ai sensi del quale il rigetto del ricorso per la dichiarazione di insolvenza deve essere pronunciato dal Tribunale con decreto reclamabile ai sensi dell’art. 22 l. fall., la cui applicabilità non sembra sollevare particolari problemi, benché la norma sia stata oggetto di modifica in sede di riforma del diritto fallimentare.
7. Il rinvio all’art. 203 l. fall.
Ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 82 Tub, la dichiarazione giudiziale di insolvenza produce gli effetti previsti dall’art. 203 l. fall. Pertanto, a) dalla data del provvedimento di liquidazione risulta applicabile la disciplina delle azioni revocatorie ordinarie e fallimentari; b) i commissari liquidatori sono tenuti a presentare al Procuratore della Repubblica una relazione nel rispetto dei termini e dei contenuti previsti dall’art. 33 l. fall. per la relazione che il curatore deve rendere al giudice delegato.
Se quest’ultimo adempimento non sembra sollevare specifici problemi di coordinamento, anche tenendo conto delle modifiche apportate all’art. 33 dalla riforma76, il richiamo alla disciplina delle azioni revocatorie77 – come precisa la norma – con effetto dalla data del provvedimento di liquidazione ripropone anche nell’ambito della liquidazione coatta delle banche le controverse questioni concernenti l’armonizzazione dei termini – prescrizionali e di misurazione del cosiddetto periodo sospetto – rispetto ad una sequenza procedimentale non vincolata, potendo intervenire la dichiarazione giudiziale di insolvenza sia prima, sia dopo l’emanazione del decreto di liquidazione78. Per il resto, dato il rilievo che queste problematiche hanno sul piano della pratica, ci si limiterà sinteticamente a rammentare che:
a) con riguardo al decorso del termine di prescrizione per l’esercizio delle azioni revocatorie è opinione prevalente che, in mancanza di una specifica disposizione, trovi applicazione la disciplina generale di cui all’art. 2935 c.c., ai sensi della quale il suddetto termine decorre dal momento in cui il diritto può essere fatto valere. Esso deve, dunque, essere computato dalla data del decreto che dispone l’apertura della procedura e la nomina del commissario, se la sentenza dichiarativa dell’insolvenza è antecedente ad esso, ovvero dalla data della sentenza, se questa è stata emessa nel corso del procedimento79;
b) per quel che concerne, invece, il decorso del cosiddetto periodo sospetto la più recente giurisprudenza della Suprema Corte ne fissa l’inizio dalla data dell’emanazione del provvedimento di ammissione alla procedura, tanto se l’accertamento giudiziale la preceda, quanto se sia successivo ad essa80.
 
1
Per le opposte tesi si vedano, rispettivamente, DESIDERIO, Commento sub art. 82, in Comm. Capriglione al Tub, 2a ed., I, Padova, 2001, 641 ss., e FORTUNATO, La liquidazione coatta delle banche dopo il Testo Unico: lineamenti generali e finalità, in Banca, borsa, tit. cred., 1994, I, 765, ai quali adde BONFATTI – FALCONE, Commento sub art. 82, in Comm. BelliContento – A. Patroni Griffi – Porzio  Santoro, II, Bologna, 2003, 1343, con ulteriori riferimenti bibliografici in nota.
2
Così, BELLÈ, Commento sub art. 195, in Comm. Ferro, Padova, 2007, 1504; ma si veda, anche, TEDESCHI, Manuale del nuovo diritto fallimentare, Padova, 2006, 586, nonché, di recente, BONFATTI, sub Art. 194, in La legge fallimentare dopo la riforma, a cura di Nigro – Sandulli– Santoro, III, 2010, 2374.
3
La questione è stata approfondita soprattutto da BELLÈ, cit., 1526, secondo il quale le soglie di fallibilità di cui all’art. 1 l. fall. troverebbero applicazione soltanto nel caso in cui l’ente possa essere assoggettato alternativamente a fallimento o a liquidazione coatta amministrativa. Non è chiara, invece, la ragione per la quale, secondo PLATANIA, Commento sub art. 195, in Cod. Lo Cascio, Milano, 2008, 1678, la mancata previsione di limiti dimensionali per le imprese soggette ad accertamento giudiziale dell’insolvenza violerebbe il principio costituzionale di parità di trattamento solo nel caso in cui il suddetto accertamento preceda l’apertura del procedimento di liquidazione e non anche quando intervenga nel corso della procedura liquidativa.
4
Così, infatti, BELLÈ, cit., p. 1527.
5
Cfr. BONFATTI, Commento sub art. 80, in Comm. BelliContento – A. Patroni Griffi – Porzio  Santoro, II, Bologna, 2003, 1292, secondo il quale l’attuale contesto normativo consente di affermare che il provvedimento di liquidazione coatta può essere emesso anche nel caso in cui le perdite di eccezionale gravità siano soltanto previste, ma non si siano ancora verificate.
6
Su tale questione si rinvia a BONFATTI, cit., 1267 ss.
7
Così, ad esempio, CASTIELLO D’ANTONIO, Sull’applicabilità dell’art. 202 l. fall. agli enti pubblici assoggettati a liquidazione concorsuale, in Diritto concorsuale amministrativo. Studi, Padova, 1997, 137.
8
BONFATTI, cit., 1299, ove ulteriori citazioni bibliografiche.
9
Fortemente critico nei confronti dell’art. 82 Tub, accettandone l’interpretazione prevalente, è MINERVINI, Il vino vecchio negli otri nuovi, in Giur. comm., 1994, 967.
10
Sulla questione si veda, di recente, ANTONUCCI, Diritto delle banche, 5° ed., Milano, 2012, 147 ss. Pertanto, solo per completezza espositiva si rammenta che, tanto l’art. 82, 2° comma, Tub, quanto gli artt. 195, ultimo comma, e 202, ultimo comma, l. fall., risultano formulati in maniera abbastanza ambigua, sì da giustificare anche ipotesi interpretative del tutto diverse. Si è così osservato che l’art. 82, 2° comma, nella parte in cui prevede che l’insolvenza, anche di una banca avente natura pubblica, possa essere accertata successivamente alla emanazione del decreto di liquidazione, se non è stata dichiarata a norma del comma 1°, lascerebbe intendere che pure per le banche pubbliche sia possibile addivenire alla dichiarazione giudiziale di insolvenza prima che ne sia stata disposta la liquidazione coatta (così, con qualche perplessità, DESIDERIO, cit., 649). Secondo Altri, invece, la circostanza che, ai sensi dell’art. 202, 1° comma, l. fall., l’accertamento giudiziario dello stato di insolvenza successivo all’apertura della liquidazione coatta amministrativa possa intervenire, se questa non è stata preventivamente dichiarata a norma dell’art 195, unita al mancato richiamo nell’ultimo comma della norma all’art. 195, ultimo comma, l. fall. – il quale esclude l’applicabilità della disciplina relativa all’accertamento giudiziario dell’insolvenza anteriore all’inizio del procedimento agli enti pubblici – indurrebbe a ritenere che la dichiarazione di insolvenza possa essere pronunciata successivamente all’emissione del decreto di liquidazione solo nei confronti degli enti verso i quali era possibile, ma non è stato effettuato, l’accertamento preventivo. Ne deriverebbe, pertanto, che l’insolvenza non potrebbe mai essere giudizialmente dichiarata nei confronti di enti pubblici. L’opinione era già sostenuta nel vigore della abrogata legge bancaria: cfr., per tutti, BELVISO, Tipologia e normativa della liquidazione coatta amministrativa, Napoli, 1973, 174. I termini della questione sono diffusamente esposti da C. BAVETTA, L’accertamento giudiziale dello stato di insolvenza, in Le procedure concorsuali. Procedure minori, a cura di Ragusa Maggiore e Costa, I, Torino, 2001, 597 ss., ove ampi riferimenti di dottrina e di giurisprudenza, al quale adde SPIOTTA, Commento sub art. 202,in Comm. Jorio, II, Bologna, 2007, 2660–2661.
11
Fra l’altro, in tal senso si era pronunciata anche la Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza 13 marzo 1965, n. 425, in Foro. it., 1965I, 618.
12
Il tema è ampiamente trattato da BONFATTI, cit., 1272 ss.; ID., La liquidazione coatta delle banche e degli intermediari in strumenti finanziari. Presupposti soggettivi ed oggettivi, Milano, 1998, 24 ss. Si vedano, da ultimi, in senso favorevole all’applicabilità della legge speciale anche alle banche di fatto, BONFATTI – FALCONE, sub Art. 2, in La legge fallimentare dopo la riforma, a cura di Nigro – Sandulli – Santoro, I, Torino, 2010, 42 ss.
13
Per vero, questa corrente giurisprudenziale è stata inaugurata, ancor prima della emanazione del Tub, da Trib. Roma, 20 febbraio 1992, in Banca borsa, 1993, II, 69, con nota fortemente critica di CAPRIGLIONE, Banca di fatto: nuovo orientamento della giurisprudenza e riflessioni sul ruolo istituzionale delle autorità di controllo bancario, e di RATTO, Mancanza di autorizzazione all’esercizio dell’attività bancaria e disciplina dell’insolvenza, cui hanno fatto seguito, fra le altre, Trib. Brindisi, 16 aprile 1996, ivi, 1997, 97, con nota adesiva di SANTORO, Questioni in tema di banca di fatto; Trib. Venezia, 16 ottobre 1997, ivi, 1999, II, 227, con nota adesiva di CRISCUOLO, Il fallimento della banca di fatto; Trib. Brindisi, 15 luglio 1999, in Fallimento, 2000, 1039, con nota di PELLICCIA, Banca di fatto e fallimento. La giurisprudenza di merito si consolida; Trib. Firenze, 20 marzo 2003, in Soc., 2004, con nota di COLAVOLPE.
14
La nazionalità di una banca è determinata dallo Stato in cui essa ha sede legale e amministrazione centrale, per le banche comunitarie, ovvero dallo Stato in cui ha sede legale, per le banche extracomunitarie (art. 1, 2° comma, lett. b) e c), Tub).
15
È vero che la norma precisa che le regole della liquidazione coatta amministrativa si applicano alle succursali extracomunitarie “in quanto compatibili”, ma problemi di compatibilità non sembrano sorgere in rapporto alla eventuale dichiarazione giudiziale di insolvenza ed alle conseguenze che da essa derivano: cfr. VELLA, Commento sub art. 95, in Comm. Belli – Contento – A. Patroni Griffi – Porzio – Santoro, II, Bologna, 2003, 1623 ss.; nonché, per l’analoga questione con riferimento all’amministrazione straordinaria, GALANTI, Commento sub art. 77, in Comm. Capriglione al Tub, 2a ed., I, Padova, 2001, 598.
16
Ai sensi della definizione contenuta nell’art. 1, 1° comma, lett. gbis), Tub, “Stato d’origine” è lo Stato comunitario che ha concesso l’autorizzazione all’esercizio dell’attività bancaria.
17
Non trova, dunque, applicazione analogica in materia di insolvenza delle banche comunitarie l’art. 9, 3° comma, l. fall., che consente che venga dichiarato il fallimento in Italia dell’imprenditore, che abbia la sede principale dell’impresa all’estero, anche nel caso in cui la sentenza di fallimento sia già stata pronunciata all’estero, ma nemmeno il Regolamento CE 1346/2000 del 29 maggio 2000, pur finalizzato a dettare regole uniformi per le procedure di insolvenza nei paesi comunitari, poiché l’art. 1, 2° comma, del Regolamento medesimo ne esclude l’estensione al settore creditizio.
18
Così, DI FONZO, La disciplina comunitaria delle crisi bancarie: la direttiva 2001/24/CE, in www.archivioceradi.luiss.it/documenti/.../impresa/.../difonzo_crisi.pdf ecc., 6 e 14 ss.; ma si veda anche GALLETTI, L’insolvenza transfrontaliera nel settore bancario, in Banca borsa, 2006, I, 546 ss.
19
Cfr., fra gli altri, SANDULLI, Commento sub art. 5, in Comm. Jorio, I, Bologna, 2006, 98 ss; FORTUNATO, La liquidazione coatta delle banche dopo il Testo Unico: lineamenti generali e finalità, in Banca borsa, 1994, I, 772; TERRANOVA, L’insolvenza delle banche, ora in Stato di crisi e stato di insolvenza, Torino, 2007, 91 ss., e, in giurisprudenza, Trib. Potenza, 13 luglio 2000, in Banca borsa, 2002, II, 500, con nota di CARDUCCI ARTENISIO, L’accertamento giudiziale dell’insolvenza di banca in liquidazione coatta amministrativa.
20
Si veda, di recente, Cass., 21 aprile 2006, n. 9408, in Banca borsa, 2008, II, 329, con nota redazionale di CARRELLI, ed in Fallimento, 2006, 1279, con nota di BARBIERI, Accertamento dello stato d’insolvenza dell’impresa bancaria; Trib. Frosinone, 15 maggio 1998, in Riv. dir. comm. e obbligazioni, 1999, II, 101, con nota adesiva di CAPPIELLO, Lo stato di insolvenza dell’impresa in rapporto alla specificità dell’attività bancaria ed in Banca borsa, 2000, II, 317, con nota adesiva di CERCONE, L’insolvenza delle banche tra nuove questioni processuali e consolidati indirizzi di merito; nonché GALANTI, L’accertamento giudiziale dello stato di insolvenza, in Comm. Ferro – Luzzi, Castaldi, II, Milano, 1996, 1390. In tema, cfr., anche, BELLÈ, Commento sub Art. 195, cit., 1526, il quale rammenta che, per quel che concerne la crisi delle imprese assicurative, proprio in materia di accertamento giudiziale dell’insolvenza, l’art. 248, 3° comma, cod. ass., ha introdotto una nozione più ampia di insolvenza, che comprende anche il deficit patrimoniale irreversibile e di eccezionale gravità.
Al contrario, l’entità del dissesto non ha alcuna rilevanza oggettiva, ai fini della dichiarazione di fallimento, se non quella di escludere dalla procedura, ex art. 15, ultimo comma, l. fall.,le imprese aventi debiti scaduti e non pagati per un ammontare al momento fissato in trentamila Euro. Come è stato giustamente osservato (CAVALLI, I presupposti soggettivi del fallimento, in AMBROSINI – CAVALLI – JORIO, Il fallimento, in Tratt. Cottino, XI, Padova, 2009, 56), il livello dell’esposizione debitoria, di cui all’art. 1, 2° comma, lett. c), l. fall., non ha alcuna rilevanza in sé, né come indizio di insolvenza, ma funge piuttosto da indicatore delle dimensioni dell’impresa.
21
BONFATTI – FALCONE, sub Art. 82, cit., 1345 ss.
22
Ai commissari liquidatori si reputa sia affidata la tutela degli interessi dei creditori, ai quali, pertanto, la norma non riconosce in questa fase alcuna legittimazione ai fini dell’accertamento giudiziale dell’insolvenza. Così, GALANTI, L’accertamento giudiziale, 1393.
23
Inspiegabilmente, ma non diversamente da quanto prevedeva l’art. 195, 1° comma, e tuttora prevede l’art. 202, 1° comma, l. fall., fra i soggetti legittimati non vi è la banca insolvente. Su tale carenza si vedano, per tutti, le vivaci critiche di BELVISO, cit., 77, nt. 59.
24
Ai sensi del settimo comma della disposizione abrogata, il Tribunale dichiarava d’ufficio l’insolvenza soltanto qualora nel corso dell’amministrazione controllata o del concordato preventivo si fossero verificate le condizioni, che potevano dar luogo ad una dichiarazione di fallimento. Cfr. DESIDERIO, cit., 647 ss.
25
Secondo GALANTI, Riforma del diritto fallimentare e procedure di crisi delle imprese finanziarie, in Fallimento, 2006, 1119, limitatamente al riconoscimento della legittimazione attiva in capo all’autorità di controllo la norma sarebbe applicabile in via suppletiva anche alle banche, ai sensi dell’art. 80, 6° comma, Tub.
26
Essa coincide anche con quanto tuttora dispone l’art. 3, 1° comma, d. lg. n. 270/1999 (per il quale parimenti la sentenza dichiarativa dell’insolvenza, propedeutica all’ammissione all’amministrazione straordinaria, può essere emessa per iniziativa dei creditori e del pubblico ministero, oltre che d’ufficio dal Tribunale), che pone, quindi, analoghi problemi interpretativi. In tema, si veda, M. BIANCA, Il procedimento di dichiarazione dello stato di insolvenza, in COSTA, L’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, Torino, 2008, 62.
27
Cfr. PATTI, La dichiarazione dello stato di insolvenza e la dichiarazione di fallimento: prassi, questioni dibattute, novità legislative, in Fallimento, 2001, 245 ss.
28
Per le quali, si veda, recentemente, CAVALLI, La dichiarazione di fallimento, in AMBROSINI – CAVALLI – JORIO, Il fallimento, in Tratt. Cottino, XI, Padova, 2009, 152 ss.
29
Si rammenti che, per opinione prevalente, l’istanza non deve essere indirizzata direttamente al Ministro, bensì alla Banca d’Italia, alla quale spetta in via esclusiva di decidere se proporre al Ministro la procedura di liquidazione coatta amministrativa. V., per tutti, BONFATTI, cit., 1313 ss.
30
Cfr., infra, par. 7.
31
Così, MONTANARO, Il procedimento per la dichiarazione di fallimento, in Le riforme della legge fallimentare, a cura di Didone, Torino, 2009, 191.
32
In passato era assai controverso se il pubblico ministero fosse titolare di un potere generalizzato di iniziativa ovvero se tale potere fosse, ed in che misura, tipizzato. Secondo la prima tesi, ampiamente sostenuta dalla giurisprudenza, il pubblico ministero era titolare di un potere di carattere generale, che traeva fondamento dalla previsione di cui all’abrogato art. 6 l. fall., consistente nella facoltà di effettuare quella che si riteneva fosse una mera “segnalazione”, in senso tecnico, al Tribunale competente, il quale poteva, poi, procedere a dichiarare il fallimento d’ufficio; ad esso si aggiungeva il potere/dovere esercitare una vera e propria azione (pur se di natura prettamente processuale) esclusivamente in presenza delle situazioni specificamente menzionate dal previgente art. 7 (ed ora sostanzialmente recepite dall’art. 7, n. 1, l. fall., con la sola varante dell’inserzione della “irreperibilità” fra le fattispecie sintomatiche dell’insolvenza), a fronte delle quali l’iniziativa del pubblico ministero per la dichiarazione di fallimento costituiva un’attività necessitata. In giurisprudenza, cfr., fra le altre, Cass., 5 dicembre 2001, n. 15407, in Foro it., 2002, I, 374; per la dottrina, si vedano, invece, DIMUNDO, L’iniziativa per la dichiarazione di fallimento, in Diritto fallimentare, coordinato da Lo Cascio, Milano, 1996, 266; PACCHI PESUCCI, La dichiarazione di fallimento, in Diritto fallimentare, coordinato da Maffei Alberti, Bologna, 2002, 73; ad essi adde PATTI, La dichiarazione dello stato di insolvenza, 250, secondo il quale il pubblico ministero avrebbe avuto altresì la facoltà di attivarsi, se avesse ricevuto la notizia dell’insolvenza da un altro giudice, che l’avesse rilevata nel corso di un processo civile del quale il pubblico ministero fosse parte necessaria.
La dottrina prevalente, invece, pur propendendo per una lettura restrittiva della norma, offriva un ampio ventaglio di interpretazioni, che vedevano collocarsi ai due estremi opposti i sostenitori della tesi secondo cui l’iniziativa del pubblico ministero presupponeva che già fosse stata proposta un’azione penale e, per di più, che nel corso di questa fossero emersi i fatti “sintomatici” indicati nell’art. 7 l. fall. (così, ad esempio, BONGIORNO, La dichiarazione di fallimento, in Le procedure concorsuali. Il fallimento, a cura di Ragusa Maggiore e Costa, Torino, 1997, 286 ss.) e coloro che, invece, reputavano sufficiente la mera sussistenza delle condizioni per l’esercizio dell’azione penale (JORIO, Le crisi d’impresa. Il fallimento, in TrattIudicaZatti, Milano, 2000, 244). Per una dettagliata rassegna delle diverse opinioni si veda, comunque, D’AQUINO, I poteri del PM nella dichiarazione di fallimento, nota a Trib. Napoli, 6 novembre 2002, in Fallimento, 2003, 1102.
L’opinione maggiormente condivisa attualmente – pur forzando consapevolmente la lettera della norma, che sembra considerare come ipotesi autonome l’emergenza della situazione di insolvenza nel corso di un procedimento penale ovvero il verificarsi di una delle fattispecie elencate nell’art. 7, n. 1, seconda parte, l. fall. – pare orientata a ritenere che il pubblico ministero sia legittimato proporre istanza di fallimento soltanto nel caso in cui l’insolvenza si evidenzi durante un processo penale e ad attribuire natura meramente esemplificativa all’elencazione delle cosiddette figure sintomatiche dell’insolvenza. Così, fra gli altri, MONTANARO, cit., p. 101 ss.; CAVALLI, La dichiarazione, p. 160. Sopravvive, tuttavia, una dottrina minoritaria, che tuttora riconosce al pubblico ministero un generalizzato potere di iniziativa: v., BONFATTI – CENSONI, Manuale di diritto fallimentare, Padova, 2011, 55; CAIAFA, Nuovo diritto delle procedure concorsuali, Padova, 2006, 198; PACILEO, Il pubblico ministero nel processo civile, in Cass. pen., 2006, 3411.
33
La riforma della legge fallimentare ha costituito l’occasione non soltanto per eliminare la dichiarazione officiosa di fallimento (sulla quale si veda, per tutti, BASSI, Il fallimento di ufficio, in Giur. comm., 2001, I, 631 ss.), assai discussa anche dopo che la Corte costituzionale ne aveva riconosciuta la legittimità con la sentenza 15 luglio 2003, n. 240 (pubblicata, fra l’altro, in Fallimento, 2003, 1049, con nota critica di LO CASCIO, La dichiarazione di fallimento di ufficio e la pretesa illegittimità costituzionale della disciplina normativa, ed in Giur. it., 2005, 1198, con nota favorevole di FAUCEGLIA, Sul fallimento d’ufficio: poteri d’iniziativa e tutela del debitore), ma anche per risolvere alcune controversie originate dalla previgente disciplina. Infatti, in passato era assai dubbio se il Tribunale potesse dichiarare il fallimento d’ufficio soltanto qualora avesse ricevuto segnalazione da un giudice che avesse rilevato l’insolvenza di una delle parti nel corso di un procedimento civile, ai sensi dell’abrogato art. 8 l. fall., ovvero quando ne avesse avuto notizia da una “fonte ufficiale” (peraltro, di non agevole identificazione) o, ancora, se in qualunque modo fosse venuto a conoscenza del dissesto. Per una rassegna delle tesi sommariamente riassunte e della dottrina che le ha sostenute, si veda FABIANI, Commento sub artt. 67, in Comm. Jorio, I, Bologna, 2006, 123.
34
A favore del carattere discrezionale dell’iniziativa del pubblico ministero, “potendo e dovendo questi valutare l’adeguatezza della segnalazione ricevuta”, si esprimono, fra gli altri, CLEMENTE – GISONDI, Commento sub art. 7, in Comm. NigroSandulli, Torino, I, 2006, p. 33.
35
Non è più richiesto, dunque, né che l’insolvente sia parte del processo, né che l’insolvenza emerga nel corso di un processo di cognizione, essendo il termine giudizio così ampio da comprendere ogni genere di procedimento civile. Così, da ultimi, MONTANARO, cit., 194 – 195; DONZI, L’iniziativa per la dichiarazione di fallimento: artt. 6 e 7 l. Fall., in Tratt. Fauceglia – Panzani, I, Torino, 2009, 120.
36
Cfr., rispettivamente, FABIANI, cit., 134, e CAVALLI, La dichiarazione, 166, ambedue con riferimento allo speculare problema che si pone in materia di amministrazione straordinaria, a fronte di quanto prevede l’art. 3, 1° comma, d. lg. n. 270/1999.
37
V., infatti, BELLÈ, Commento sub art. 194,in Comm. Ferro, Padova, 2007, 1503 ss.
38
Così, M. BIANCA, cit., 63 ss., in riferimento, però, all’art. 3 d.lg. n. 270/1999.
39
BELLÈ, Commento sub art. 195, 1530; nonché, con riguardo al procedimento di amministrazione straordinaria, STASI, L’amministrazione straordinaria, in Tratt. Fauceglia – Panzani, III, Torino, 2009, 2023.
40
Sicché non può essere più considerata valida la tesi, in precedenza espressa in termini generali, secondo la quale “là dove la legge lascia spazio all’iniziativa del giudice, predispone antecedentemente un sistema di coinvolgimento di informazioni all’ufficio giudiziario”. Così, BONSIGNORI, Commento sub art. 2907, in Della tutela giurisdizionale dei diritti, I – Disposizioni generali,in CommScialoja Branca, Bologna – Roma, 1999,26 ss., il quale riporta, aderendovi, l’opinione di LA CHINA, La tutela giurisdizionale dei diritti, in Tratt. Rescigno, XIX, Torino, 1986, 26 ss.
41
Sul carattere eccezionale dell’iniziativa officiosa, in deroga al principio della correlazione fra titolarità del diritto e titolarità dell’azione, si veda, per tutti, BONSIGNORI, Commento sub art. 2907, 23 ss.
42
C. Cost., 15 luglio 2003, n. 240. V., supra, nt. 34.
43
La Consulta ha posto fine, così, all’annosa questione concernente la rilevanza del “fatto notorio” ai fini della dichiarazione officiosa del fallimento ed ha altresì escluso il carattere di fonte qualificata dell’elenco dei protesti che, ai sensi dell’abrogato art. 13 l. fall., veniva comunicato con cadenza quindicinale al Presidente del Tribunale.
44
In altri termini, come è stato ben detto, la legittimità della pronuncia del Tribunale deriva “dalla esternità della iniziativa alla pronuncia d’ufficio, nel senso che non può essere il tribunale ad andare alla ricerca delle imprese insolventi, ma l’autorità giudiziaria può aprire il procedimento quando riceva una segnalazione qualificata”. Così, FABIANI, cit., 127.
45
FABIANI, cit., 158.
46
Contra LO CASCIO, cit., 1056, secondo il quale anche in questo caso la sentenza interverrebbe per iniziativa di parte, benché la posizione processuale di questa sia viziata.
47
A seguito della soppressione del fallimento d’ufficio e del corrispondente ampliamento dei poteri di iniziativa del pubblico ministero, la dottrina finora prevalente – confortata da quanto conformemente è espresso nella Relazione – ha ritenuto che legittimamente la segnalazione dell’insolvenza al pubblico ministero possa provenire dallo stesso Tribunale fallimentare, impossibilitato a provvedere per difetto di legittimazione o desistenza del creditore istante. Cfr., per tutti, DONZI, cit., 120; CAVALLI, La dichiarazione, 161, con ulteriori riferimenti bibliografici in nota.
Una recente sentenza della Suprema Corte (Cass., 26 febbraio 2009, n. 4632, in Fallimento, 2009, con nota di FERRO, Istruttoria prefallimentare e desistenza del ricorrente creditore: il giudice non può segnalare l’insolvenza del debitore; ma ancora più di recente si veda nello stesso senso Cass., 21 aprile 2011, n. 9260, in Gius. civ. Mass., 2011, 649), a conferma di App. Milano, 29 novembre 2007 (in Foro it., 2008, I, 621, con nota di FABIANI), ha negato, però, tale possibilità, proprio perché in tal modo risulterebbero compromesse l’imparzialità e l’estraneità del giudice. La pronuncia non sembra ad oggi aver riscosso il consenso dei primi commentatori (FILIPPI, Contrasti su… poteri dei creditori e ruolo del pubblico ministero, nota a Trib. Tivoli, 6 aprile 2009, App. Napoli, 21 gennaio 2009, Trib. Salerno, 8 aprile 2009, Trib. Tolmezzo, 14 ottobre 2008, in Giur. di Merito, 2009, 1568 ss.), né di parte della giurisprudenza di merito (Trib. Tivoli, 6 aprile 2009, cit.; nel senso indicato dalla Suprema Corte, si veda, invece, Trib. Salerno (decr.), 8 aprile 2009).
48
Al momento dell’entrata in vigore del Tub l’applicazione del diritto penale fallimentare anche in materia bancaria era un dato pacifico, in ragione del rinvio tuttora contenuto nell’art. 82, ultimo comma, all’art. 203 l. fall. per la determinazione degli effetti conseguenti alla dichiarazione giudiziale di insolvenza. Infatti, originariamente, il secondo comma dell’art. 203 prevedeva l’applicabilità ai soci a responsabilità illimitata, agli amministratori, ai direttori generali, ai liquidatori e ai componenti degli organi di vigilanza degli artt. 216–219 e 223–225 l. fall.;questa norma, però, è stata abrogata dall’art. 99, 1° comma, d.lg. n. 270/1999, il cui secondo comma ha contemporaneamente sostituito il previgente art. 237 l. fall. ed ha allocato in esso la disciplina penale della liquidazione coatta amministrativa. Attualmente, dunque, l’equiparazione fra la dichiarazione giudiziale di insolvenza e la dichiarazione di fallimento ai fini dell’applicabilità delle disposizioni penali fallimentari è sancita dall’art. 237, 1° comma, l. fall. Non v’è dubbio, comunque, che le suddette disposizioni continuino a trovare applicazione anche nel settore bancario, dal momento che è, generalmente riconosciuto che la nuova collocazione sia stata ispirata esclusivamente da esigenze di riordino sistematico della materia. Cfr. SPIOTTA, Commento sub art. 203, in Comm. Jorio, II, Bologna, 2007, 2668.
49
Cfr. artt. 73–74 ord. giud.
50
L’assenza di una regolamentazione specifica consente, dunque, di riproporre nell’ambito della disciplina della liquidazione coatta delle banche la tesi che, in passato, riconosceva al pubblico ministero un potere generalizzato di promuovere la dichiarazione di fallimento in rapporto all’esercizio dell’azione penale (v. supra, nt. 33).
51
Ove si ritenga di dover dare risposta positiva al quesito, non dovrebbero esserci più dubbi sulla circostanza che l’attività del pubblico ministero non possa essere qualificata come mera “segnalazione” rivolta al Tribunale (cfr. Cass., 27 novembre 2002, n. 15018, in Foro it., 2002, 374, con nota redazionale adesiva sul punto di FABIANI), ma sia esercizio di una vera e propria azione, benché di natura esclusivamente processuale, a seguito del quale egli assume la veste di parte, quantomeno formale, del processo. Questa opinione, già in passato ampiamente sostenuta soprattutto dagli studiosi del diritto processuale (cfr. MOROZZO DELLA ROCCA, Pubblico ministero (dir. proc. civ), in Enc. dir., XXXVII, Milano, 1988, 1078; MANDRIOLI, Diritto processuale civile, I, 20a ed., Torino, 2009, 435 s.), è ora confermata dall’attuale versione dell’art. 22, 2° comma, l. fall. Tale norma – che, come si vedrà di seguito trova applicazione anche nell’ambito della liquidazione forzata delle banche – ha posto fine alle incertezze di un’oscillante giurisprudenza (per la quale v. MARELLI, Commento sub art. 22, in Comm. Jorio, I, Bologna, 2007, 414, nt. 14), espressamente legittimando il pubblico ministero richiedente a proporre reclamo avverso il decreto che abbia rigettato la domanda di fallimento e riconoscendogli in tal modo indirettamente la titolarità di un diritto di azione, anche se di contenuto meramente processuale. Così, fra gli altri, CAVALLI, La dichiarazione, 158.
52
Sulla tassatività delle fattispecie di esercizio dell’azione del pubblico ministero nel processo civile, cfr., per tutti, VELLANI, Pubblico ministero in diritto processuale civile, in Digesto civ., XVI, Torino, 1997, 142.
53
JORIO, cit., 244–245.
54
GRASSO, Pubblico ministero. II. Diritto processuale civile, in Enc. Giur, XXV, Roma, 1991, 3; PACILEO, cit., in Cass. pen., 2006, 3411.
55
BONSIGNORI, Della tutela giurisdizionale, 25.
56
Probabilmente la ragione per la quale tale urgenza non è stata avvertita in maniera particolarmente pressante dal legislatore è dovuta alla prudenza ed alla parsimonia con la quale tradizionalmente i pubblici ministeri hanno fatto uso dei loro poteri di inziativa.
57
Su tale pacifica nozione si veda BONGIORNO, Commento sub art. 99ter, in Comm. Jorio, I, Bologna, 2007, 174, con ampi riferimenti di dottrina e di giurisprudenza in nota.
58
Così, BONFATTI – FALCONE, cit., 1349 s.
59
DESIDERIO, cit., 644.
60
In tal senso, v. TUNISINI COTTAFAVI, Commento sub art. 95,in Comm.Capriglione al Tub, 2a ed., I, Padova, 2001, 743.
61
Cfr. CAVALLI, La dichiarazione, 168 ss., il quale ricostruisce l’evoluzione della interpretazione giurisprudenziale, che, ai fini della determinazione della competenza territoriale, in un primo momento ha ritenuto irrilevanti gli spostamenti di sede successivi all’inizio della procedura e, in seguito, ha esteso il principio anche ai trasferimenti significativamente vicini a tale data. In senso contrario al testo, si veda, però, GALANTI, Riforma del diritto fallimentare, 1119.
62
L’audizione dei rappresentanti legali è ovviamene finalizzata a garantire il diritto costituzionale alla difesa, benché si sia ritenuto che, in concreto, essa sortisca soltanto il limitato effetto di assicurare un “contraddittorio formale”. Così, DESIDERIO, cit., 646.
63
Sulla controversa funzione dell’audizione della Banca d’Italia si vedano BONFATTI – FALCONE, sub Art. 82, cit, 1352, e DESIDERIO, op. ult. cit., 645, ove ulteriori riferimenti di dottrina.
64
BONFATTI – FALCONE, cit., 1352.
65
Si noti che l’identico identico problema si pone nell’ambito della legge fallimentare per i richiami all’art. 195 contenuti nell’art. 202, rimasto invariato, nonostante che gli schemi predisposti dal Ministero della giustizia e dal Ministero dell’economia nel luglio 2005, ne modificassero il testo, coordinandolo con la nuova formulazione dell’art. 195, come ricorda SPIOTTA, Commento sub art. 202, cit, 2661, nt. 20, la quale pacificamente adegua il rinvio alla disciplina vigente, al pari della scarsa dottrina, che finora ha affrontato il problema. Cfr., anche, PALUCHOWSKI, Commento sub art. 202, in Cod. Pajardi, 6a ed., a cura di Bocchiola e Paluchowski, Milano, 2009, 1889; DE VITIS, Commento sub art. 202, in Comm. Nigro – Sandulli, II, Torino, 2006, 1171; TEDESCHI, cit., 586; BELLÈ, Commento sub art. 194, 1504.
66
Sostanzialmente nel senso del testo, si veda GALANTI, Riforma del diritto fallimentare, 1117; nonché BELLÈ, Commento sub art. 194, 1504.
67
Si noti che tanto il primo, quanto il secondo comma dell’art. 82 Tub prevedono che la sentenza deve essere emessa dal tribunale in camera di consiglio, mentre la precisazione non è più contenuta nell’art. 16 l. fall., relativamente alla sentenza dichiarativa di fallimento. L’opinione prevalente, però, attribuisce valenza meramente formale all’elisione, in quanto la natura camerale del procedimento è ora espressamente dichiarata dall’art. 15, 1° comma, l. fall., sicché la sentenza non potrebbe che essere emanata in camera di consiglio. Così, D’ORAZIO, Il procedimento per la dichiarazione di fallimento, in La riforma organica delle procedure concorsuali, a cura di Bonfatti e Panzani, Milano, 2008, 117; ma si veda, anche, FILIPPI, Il d.lg. n. 169 integra e corregge la disciplina del fallimento e delle procedure concorsuali. Si resta in attesa della riforma delle disposizioni penali, in Giur. di Merito, 2007, 3096.
68
La disposizione, prima contenuta nell’art. 195, 1° comma, ultima parte, l. fall., è ora collocata, con formulazione immutata, nel secondo comma della stessa norma.
69
Discusso è se, nel caso delle banche, la comunicazione debba essere effettuata al Ministro dell’Economia oppure – come con qualche perplessità prospetta COSTI, L’ordinamento bancario, Bologna, 2007, 807 – alla Banca d’Italia, affinché promuova l’emanazione del decreto ministeriale di liquidazione.
70
Per la quale, si veda, per tutti, CAVALLI, La dichiarazione, 214.
71
Con modifica introdotta dal d. lg. n. 169/2007 l’espressione reclamo, ha sostituito l’originario termine appello. Parte della dottrina ritiene che non si tratti di una mera variante lessicale, ma che si sia inteso consentire lo svolgimento di un giudizio integralmente devolutivo nel quale possano essere esperite nuove prove senza alcuna decadenza o limitazione. Così, SANTANGELI, Le modifiche introdotte dal decreto correttivo 169/2007 al processo per la dichiarazione di fallimento ed alla fase dell’accertamento del passivo, in Dir. fall., 2008, I, 160 ss.; ma si veda, anche, CHIMENTI, La sentenza dichiarativa i fallimento. I mezzi di gravame. Revoca del fallimento: effetti, in Tratt. Fauceglia – Panzani, I, Torino, 2009, 249 ss. Reputa, invece, che il reclamo costituisca lo strumento prescelto dal legislatore come mezzo di impugnazione nei procedimenti camerali RUSSO, Il procedimento per la dichiarazione di fallimento (la fase c.d. prefallimentare), in Trattato di diritto delle procedure concorsuali, coordinato e diretto da Apice, I, Torino, 2011, 133.
72
V., C. BAVETTA, cit., 662 ss; nonché GALANTI, Riforma del diritto fallimentare, 1118, il quale, per vero, sembra riferirsi alla emanazione, e non alla revoca, della sentenza di accertamento dell’insolvenza.
73
Cfr., per tutti, CAVALLI, La dichiarazione, 233 ss. Si tratta in realtà di un rinvio, che, se fosse stato correttamente collocato nell’ambito del procedimento di liquidazione coatta, avrebbe dato dignità normativa ad una conclusione alla quale già da tempo dottrina e giurisprudenza sono pervenute. Dal momento che mancava e tuttora manca nella legge fallimentare e nella legge bancaria una disciplina della revoca del provvedimento di liquidazione, si potrebbe essere indotti a ritenere che l’eliminazione di questo travolga tutti gli effetti già prodotti; è, invece, opinione assolutamente prevalente e condivisibile che trovi applicazione in via analogica la disposizione dettata in materia di fallimento relativa alla conservazione degli atti legittimamente posti in essere dagli organi della procedura. Cfr. C. BAVETTA, cit., 664 ss.; Cass., 3 ottobre 2005, n. 19293 (ined.).
74
Ancor più incerta – non diversamente da quanto avviene in caso di revoca del fallimento (cfr. CAVALLI, La dichiarazione, 240 ss.) – è la individuazione del soggetto su cui gravano le spese della procedura. Ad esempio, per le indennità spettanti ai componenti degli organi, che, ai sensi dell’art. 81, 4° comma, Tub, sono determinate dalla Banca d’Italia in base ai criteri da essa stessa stabiliti, non è scontato che, in caso di revoca, trovi applicazione anche l’ultima parte della norma, che prevede che esse siano a carico della liquidazione.
75
E v., infatti, GALANTI, Riforma del diritto fallimentare, cit, 1118.
76
L’art. 33 l. fall. è stato oggetto di ulteriori modifiche di ordine formale ad opera del d. lg. n.169/2007 (su di esso si veda ABETE, Commento sub art. 33, in Comm. Jorio, I, Torino, 2006, 582 ss.), e sembra che stia per essere ulteriormente variato, nei termini nei quali verrà convertito in legge l’art. 17, 1° comma, lett. c), d. l. n. 179/2012, senza, però, non dovrebbe mutare nella sostanza quanto si sostiene nel testo.
77
Che il rinvio sia alla normativa vigente è pacificamente ammesso da tutti i commentatori; cfr., per tutti, DE VITIS, Commento sub art. 203, in Comm. Nigro – Sandulli, II, Torino, 2006, 1172 s.
78
Una volta che sia stata dichiarata giudizialmente l’insolvenza, è opinione diffusa che, in caso di inerzia dell’autorità competente, gli interessati possano adire gli organi giurisdizionali amministrativi al fine di ottenere una condanna per omissione di atti di ufficio. Cfr., fra molti, BONSIGNORI, Processi concorsuali minori, in Tratt. Galgano, XXIII, Padova, 1997, 523.
Diverso è, ovviamente, se la liquidazione coatta sia stata avviata senza che sia stata dichiarata giudizialmente l’insolvenza, dal momento che l’accertamento giudiziale ha carattere eventuale, in quanto la liquidazione forzata può essere disposta anche su presupposti differenti. Tuttavia, anche in questo caso deve ritenersi che i commissari liquidatori e il pubblico ministero, che ritengano l’insolvenza sussistente, siano tenuti ad attivarsi tempestivamente per ottenere la sentenza dichiarativa dell’insolvenza (che per le banche può anche essere pronunciata d’ufficio dal Tribunale) e che siano responsabili per i danni cagionati alla procedura da eventuali ritardi. Non esiste, però, un termine massimo oltre il quale l’insolvenza non può più essere dichiara, avendo ritenuto la Corte Costituzionale che sia inapplicabile alla fattispecie in esame il termine di cui all’art. 10 l. fall. Cfr. C. Cost., 22 luglio 2005, n. 301, in Banca, borsa, 2007, II, 269, con nota di DE VITO, Il dies a quo per la dichiarazione dello stato di insolvenza delle banche successiva alla liquidazione coatta nell’interpretazione della Corte costituzionale, e in Fallimento, 2006, 17, con nota di PROTO, L’accertamento dello stato di insolvenza delle imprese soggette a liquidazione coatta amministrativa e la decorrenza del termine di cu all’art. 10 l. fallnella interpretazione della Corte Costituzionale.
79
Così, esplicitamente, Cass., 24 luglio 2007, n. 16383, in Giust. civ., 2008, 696; ma il principio emerge implicitamente anche in alcune sentenze – fra le quali C. Cost., 31 ottobre 2007, n. 362, in Giust. civ., 2008, 320 – che hanno affrontato la questione in relazione a situazioni nelle quali l’accertamento giudiziale dello stato di insolvenza è intervenuto successivamente al decreto di apertura del procedimento (cfr., ad esempio, Cass., 24 luglio 2007, n. 16384, in Guida al dir., 2007, f. 39, 68); nonché da alcune sentenze in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese, nella quale la sentenza dichiarativa dell’insolvenza è sempre anteriore all’inizio del procedimento: v. Cass., 9 novembre 2007, n. 23398, in Giust. civ. mass., 2007, 11, in linea con l’interpretazione inaugurata da Cass., S. U., 15 giugno 2000, n. 437, in Corr. giur., 2000, 1489. Isolata appare la tesi sostenuta da Cass., 20 giugno 2006, n. 14279, in Fallimento, 2007, 307, con nota di BARBIERI, I termini delle azioni revocatorie nella l.c.a., la quale, muovendo dal problema dell’individuazione del dies a quo per il decorso del periodo sospetto, perviene ad affermare che “è dalla dichiarazione di insolvenza che decorre in ogni caso il termine di prescrizione”.
80
Cfr. Cass., 20 giugno 2006, n. 14279, cit.; per l’analogo problema in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese, v. Cass., 9 aprile 2008, n. 9177, in Giust. civ. mass., 2008, 547. In precedenza la S.C. aveva, però, sostenuto la diversa tesi, secondo la quale il decorso del periodo sospetto doveva essere computato dalla sentenza di accertamento dell’insolvenza nel caso in cui questa fosse precedente al decreto di liquidazione. Così, Cass., 14 giugno 1999, n. 5858, in Corr. giur., 2000, 211, con nota di Gio. TARZIA, Revocatoria nella liquidazione coatta amministrativa e computo del periodo sospetto, ed in Fallimento, 2000, 835, con nota di COLOMBINI, Prescrizione della revocatoria fallimentare in sede di l.c.a.

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